“La felicità è nei legami” recita così il titolo dell’articolo di spicco nel mensile Mente e cervello che nel mese di gennaio ha deciso di indagare il potere delle relazioni.
In una società sempre più spinta ad esaltare l’individualismo e l’indipendenza siamo spesso invasi dal pensiero di quanto chiedere aiuto possa farci passare come deboli e inopportuni. Decenni di ricerca psicologica in questo campo tuttavia non lasciano spazio ai dubbi: siamo indispensabili gli uni agli altri.
“Gli altri” di cui parliamo sono la tela sociale che tessiamo durante tutta la nostra esistenza, i membri della nostra famiglia, i vicini, i colleghi, gli amici, le nuove conoscenze, tutti coloro grazie ai quali troviamo la fiducia necessaria per intraprendere una vita attiva in società.
Il legame sociale diventa fondamentale in quanto agisce sulla salute fisica e mentale attraverso molteplici meccanismi. Oltre ad aumentare un sentimento di soddisfazione generale, rafforza l’idea che la vita abbia un senso e conseguentemente permette di migliorare la regolazione delle emozioni e ridurre gli effetti legati allo stress.
Ad esempio, il Neuroscienziato John Capoccio insieme alla sua equipe ha dimostrato, tramite uno studio, come mantenere relazioni con gli altri favorisca l’autocontrollo; i ricercatori hanno verificato che il funzionamento delle reti cerebrali di controllo degli impulsi è meno efficace in chi si sente solo e che la solitudine rende più vulnerabili alle dipendenze e comporta un rischio maggiore di abusare di tabacco o alcool.
Alcune ricerche hanno inoltre dimostrato come la semplice presenza dell’altro riesca a far percepire una difficoltà come meno minacciosa, fino ad arrivare a dichiarare che i rapporti sociali esercitano un effetto antidolorifico. A tal proposito in uno studio condotto da Pavel Goldstein e i suoi colleghi dell’università di Haifa in Isreaele, venivano procurate delle piccole bruciature a persone che tenevano la mano di un congiunto; i risultati dello studio hanno mostrato come il contatto con l’altro riducesse lo stress legato al dolore grazie ad un effetto psicologico chiamato “sincronizzazione” (condizione in cui i ritmi cardiaci e respiratori di chi subiva le bruciature venivano attenuati dalle pulsazioni più calme di chi li teneva per mano).
La presenza dei nostri cari porta quindi con sé tutta una serie di benefici immediati sulle esperienze che viviamo, sia che ne diminuisca i lati negativi sia che ne rafforzi gli aspetti positivi. Ciò che però dobbiamo sottolineare è che, più che aspirare ad un rapporto a senso unico, è fondamentale lavorare per costruire insieme una condizione di interdipendenza.
Cos’è l’interdipendenza e come si distingue dalla dipendenza e dalla codipendenza?
Il concetto di interdipendenza positiva affonda le sue radici nell’ambito della Psicologia sociale, Johnson, Johnson & Holubec la definiscono come “il cuore del cooperative learning” nonché uno dei 5 principi fondamentali per attuarlo. Il cooperative learning è un metodo didattico in cui gli studenti lavorano insieme in piccoli gruppi per raggiungere obiettivi comuni, cercando di migliorare reciprocamente il loro apprendimento. Il concetto di interdipendenza indica un “rapporto con”, un “legame con”, una “relazione con” altre persone per il conseguimento di un risultato di un obiettivo o di una ricompensa. Essere in interdipendenza con qualcuno significa che, per realizzare qualcosa o raggiungere uno scopo, non è possibile agire da soli; gli altri sono necessari e indispensabili. Quando l’interdipendenza positiva è strutturata e compresa con chiarezza, gli studenti dei gruppi sentono che essi e il loro lavoro sono collegati allo scopo di aumentare il reciproco benessere, che lo sforzo di ciascun membro del gruppo sarà unico e che solo gli sforzi originali di tutti i membri contribuiranno al successo.
Questo concetto è utile non solo quanto principio fondamentale dell’apprendimento cooperativo, ma anche come strumento per mantenere relazioni sane e proficue. In quest’ottica l’interdipendenza positiva può essere descritta in questi termini:
Interdipendenza positiva
“grazie agli altri la mia vita è più bella e grazie a me lo è anche la loro”
In questa condizione le persone sanno di essere reciprocamente dipendenti le une dalle altre e vivono questo come una ricchezza. Conoscono le proprie mancanze e i propri limiti ma anche quanto le proprie capacità aumentino grazie ai legami sociali.
L’interdipendenza esiste a prescindere dalla nostra opinione, sta a noi accoglierla, accettando ciò che ci offre, rendendola positiva.
Si distingue da altre due condizioni che possono svilupparsi nel rapporto con gli altri, forme più disequilibrate che potrebbero avere effetti nocivi per chi le vive:
Dipendenza
“senza di lui/lei/loro, sarei rovinato/a”
In questa condizione facciamo appello all’altro non perché lo scegliamo, ma perché lo subiamo. È inevitabile, ma diventa problematica quando è generalizzata a tutti i nostri bisogni e limitata ad un numero ristretto di persone che possano provvedere in tal senso. Nella situazione di dipendenza sembra di ricevere molto ma di donare ben poco, in realtà ogni ruolo ha in se dei vantaggi; chi ha il ruolo di aiutare l’altro, riceve sempre qualcosa in cambio, non fosse altro che la sensazione di sentirsi utili o essenziali.
Codipendenza
“sono troppo fragile per non attaccarmi a qualcuno”
In questa condizione le persone si sentono mutualmente dipendenti le une dalle altre, ma il tutto viene vissuto come una debolezza che porta a farli concentrare sulle proprie mancanze. La codipendenza è vissuta come un problema perché si prende come ideale assoluto l’indipendenza. Se modifichiamo il nostro punto di vista sulle situazioni di codipendenza, accettando ciò che riceviamo, focalizzando ciò che doniamo e aumentando gli interlocutori, possiamo andare verso l’interdipendenza positiva.
Se è vero però che l’interdipendenza regala benefici, perché ne abbiamo paura?
Ciò che temiamo di più di questa condizione sono le sue forme disequilibrate, soprattutto la dipendenza, che causa frequentemente la perdita di autonomia e libertà in chi ne è “schiavo”; ma se l’eccesso di dipendenza è nocivo, il suo evitamento lo è allo stesso modo. Steven Hayes ha condotto numerosi studi sull’evitamento esperenziale; secondo il suo approccio, quando si cerca di fuggire un’emozione si tende
a mettere in atto comportamenti disfunzionali che causano effetti deleteri sulle relazioni e sulla salute mentale dell’individuo. Ad esempio, se temiamo il giudizio sarà più facile per noi cadere nel vortice del ritiro sociale arrivando ad evitare gli altri, questo restringerà le nostre attività e i nostri piaceri, riducendo il senso di benessere. Più le situazioni ansiogene verranno evitate più l’angoscia aumenterà, rendendo sempre più difficoltoso il passo verso l’altro.
Ci sono diversi segnali che possiamo imparare a cogliere per capire se siamo incappati in una condizione di dipendenza o di evitamento esperenziale.
L’evitamento esperenziale si può descrivere come il “tentativo di evitare pensieri, sentimenti, ricordi, sensazioni fisiche e altre esperienze interne, anche quando ciò crea danni a lungo termine”. Queste strategie danno un sollievo nell’immediato ma a lungo andare alimentano sempre di più il problema allontanandoci dai veri scopi della nostra vita. Per poterle combattere occorre prima di tutto riconoscerle ed accettarle, cioè assumere una posizione di consapevolezza non giudicante e abbracciare attivamente l’esperienza di pensieri, sentimenti e sensazioni corporee così come si presentano. Le modalità di evitamento possono essere:
Nella dipendenza, al contrario, la mente è orientata fuori da sé, i pensieri hanno
come oggetto qualcuno o qualcosa a cui viene attribuita la massima importanza. In questa condizione il mondo esterno viene sopravvalutato e ne deriva una serie i falsi problemi che appesantiscono il soggetto e il suo modo di relazionarsi con gli altri. I pensieri ricorrenti che possiamo ritrovare in una condizione di dipendenza sono:
Quando è in relazione il dipendente fatica a stare da solo, si appoggia all’altro evitando di appropriarsi di capacità e talenti lasciando che sia l’altro a fare certe cose per lui. Ricopre il partner di attenzioni e spesso riveste la “maschera del salvatore” presumendo di poter salvare l’altro e di sapere ciò che fa bene per lui.
L’atteggiamento corretto, auspicabile, si trova al centro di questi due estremi, e ha a che fare con l’accettazione della nostra interdipendenza. Nell’approccio umanistico si
direbbe di mantenersi alla giusta distanza da questi due atteggiamenti estremizzati. Perché l’interdipendenza sia costruttiva occorre trovare un equilibrio fra la fiducia che abbiamo accordato all’altro e quella nei nostri confronti.
Trovando l’equilibrio e accettando l’interdipendenza come condizione normale non si nuocerà all’autonomia ma al contrario ne favoriremo lo sviluppo. È stato dimostrato come, nelle relazioni di coppia, più si accetta la dipendenza dell’altro mostrandosi di sostegno quando esprime una difficoltà, meno il partner avrà la tendenza a chiedere aiuto quando è capace di agire da sé. Brooke Feeney, della Carnegie Mellon University, lo chiama il “paradosso della dipendenza”. Accogliendo i bisogni affettivi dell’altro, come nel metodo terapeutico “centrato sulle emozioni”, il partner si sentirà più
fiducioso e meno bisognoso di rassicurazioni. Secondo Feeney questa modalità di stare in relazione permette di raggiungere più facilmente gli obiettivi personali.
È necessario quanto prima sviluppare una cultura all’interdipendenza a più livelli. Innanzitutto, a livello sociale: le decisioni politiche dovrebbero valorizzare i mestieri della cura, dell’aiuto e dell’educazione ricordando fino a che punto abbiamo bisogno gli uni degli altri. A livello scolastico: incoraggiando la collaborazione anzi la competizione. E infine a livello individuale: imparando a sviluppare le emozioni sociali positive legate all’interdipendenza, come l’ammirazione, la gratitudine, la benevolenza e la compassione.
La psicoterapia di per sé ha già fatto propria l’importanza dell’interdipendenza soprattutto nell’ambito dell’autostima. I terapeuti a lungo hanno avuto la tendenza ad organizzare il lavoro sull’autostima intorno al rafforzamento delle competenze e del senso di valore personale, incoraggiando i pazienti ad affermarsi e a ricordarsi dei loro pregi e punti di forza. Oggi, dopo molta ricerca scientifica, il lavoro con i pazienti si focalizza anche nel raggiungimento della consapevolezza dell’interdipendenza, incitando questi ultimi ad aprire gli occhi su tutte le risorse, gli aiuti, gli sguardi benevoli di chi li circonda. In questo senso le nuove chiavi dell’autostima non saranno più tanto sul versante dell’indipendenza, quanto su quello dell’appartenenza, della consapevolezza serena ma non rassegnata dei propri limiti, della richiesta di aiuto piuttosto che della dissimulazione delle proprie mancanze.