Dare una definizione di dolore è sempre stato piuttosto complicato. Infatti, questo termine viene usato per indicare un’esperienza sensoriale ed emotiva altamente soggettiva, le cui differenze non si manifestano solo a livello individuale ma anche, e in maniera piuttosto netta, fra i due sessi.
Le donne sono colpite più spesso rispetto agli uomini da malattie dolorose, ma questo purtroppo non trova riscontro nelle terapie; infatti, nonostante da diversi anni ormai la medicina di genere abbia fatto qualche passo avanti, i progressi non risultano sufficienti dato che le terapie restano ancora oggi tarate sull’organismo maschile. La necessità di terapie del dolore “di genere” risulta quindi evidente, sottolineata anche da studi svolti nell’ultimo decennio, i risultati dei quali mostrano come le differenze osservate dipendono da specificità fisiologiche, spesso legate agli ormoni sessuali, e non solo da una diversa interpretazione dello stimolo doloroso.
Trovare ascolto per il proprio dolore non è sempre facile, soprattutto per le donne.
Si tratta di pretendere chiarezza su qualcosa di invisibile, che non si manifesta con segni evidenti e quindi tende ad essere etichettato come “impossibile” o di risolvere un dolore “naturale”, o talmente ricorrente che spesso viene confuso col fatto che sia “normale”. Quando a soffrire è una donna, entrano in gioco stereotipi e pregiudizi che riguardano il corpo femminile e si crea una contraddizione tra l’immagine della donna forte, in grado di accettare un dolore fisiologico e “naturale”, e quella fragile, che tende a lamentarsi in maniera esagerata. Il dolore femminile, soprattutto quello legato alla sfera riproduttiva, come spiega Alessandra Graziottin nella sua intervista per la rivista “Mind: mente e cervello”, quindi, finisce per essere sottostimato e banalizzato come “epifenomeno dell’essere femmina”.
Dolori femminili ricorrenti, come quelli legati al ciclo mestruale, o cronici finiscono per essere sottostimati, senza considerare l’impatto che hanno sulla vita delle pazienti che ne soffrono. Secondo la IASP (International Association for the Study of Pain) la dismenorrea – così la medicina definisce le mestruazioni dolorose – colpisce fino al 90% delle adolescenti e oltre il 50% delle donne adulte. Sempre più spesso si sente parlare di genito-pelvic pain penetration disorder (GPPD), associando le vecchie definizioni di vaginismo e vulvodinia: si tratta di patologie molto diffuse, soprattutto tra le donne più giovani (l’incidenza maggiore tra i 20-30 anni), che risultano molto invalidanti e influiscono in modo importante sulla qualità della vita delle pazienti. Secondo uno studio da poco apparso su Jama, il dolore pelvico cronico in varie forme colpisce nel mondo una donna su quattro. L’impatto di patologie croniche, ma invisibili, come queste sulla qualità della vita delle donne che ne soffrono è enorme, senza dimenticare il costo economico dei giorni di lavoro persi e delle visite specialistiche spesso necessarie per arginare il problema, il calo di produttività, l’assenteismo e la conseguente la diminuzione del rendimento sia sul lavoro che nell’istruzione.
Molti disturbi che colpiscono la donna, di cui il dolore è il segnale più importante, sono diagnosticati con anni di ritardo rispetto alla comparsa dei sintomi e spesso vengono classificati come sindromi, ossia un insieme di sintomi senza una causa e una spiegazione ben definita, e non come malattia. I ritardi nelle diagnosi, che nel caso di endometriosi e vulvodinia possono prolungarsi per diversi anni, sono dovuti per lo più ad un diffuso scetticismo degli specialisti, e alla tendenza a minimizzare i sintomi dolorosi. Siccome il dolore in sé non è riconosciuto come sintomo rilevante, molte donne prima di ricevere una diagnosi finiscono per essere inviate a consulti psichiatrici, mentre il dolore di cui soffrono, che dovrebbe essere considerato il campanello d’allarme per anticipare la diagnosi, viene considerato come qualcosa che la donna “ha in testa”. Spesso, inoltre, quel dolore è ritenuto sopportabile, come se questo implicasse che non si debba far nulla per alleviarlo. La realtà è che l’impatto di questa sofferenza, ricorrente ma “sopportabile”, sulla vita della donna è spesso sottovalutato e questo può portare la paziente a un’esasperazione che genera ansia e depressione. La condizione di sofferenza cronica, associata a malattie come artrite, fibromialgia, ernie del disco, può durare per anni e spesso è associata a altre alterazioni, come cali generalizzati di energia, mobilità limitata, scarso appetito, oltre a disturbi della sfera emotiva.
In Italia, ad esempio, la Fibromialgia ha un’incidenza fra il 2% e il 4% della popolazione e colpisce principalmente le donne in età fertile e lavorativa, con un rapporto di 9:1 nei confronti degli uomini. A volte, si arriva a scoprire di avere la Fibromialgia dopo lunghi pellegrinaggi tra medici specialisti, e questo, paradossalmente, porta a sperimentare una sorta di sollievo al momento della diagnosi e la sofferenza, spesso dopo molti anni, ha finalmente un nome e non è più invisibile agli altri. Tuttavia, subito dopo, i sentimenti di tristezza, paura, rabbia, frustrazione, sconforto, incertezza, caratterizzano il vissuto emotivo di quasi tutte le persone che affrontano il momento nel quale si apprende di avere una malattia cronica.
È dimostrato, quindi, che la medicina occidentale moderna tratta il dolore degli uomini e quello delle donne in modo molto diverso: come abbiamo visto, è più probabile che la sofferenza di una donna sia sottostimata e non curata in maniera adeguata. I medici approfondiscono meno il dolore al petto di una donna rispetto a quello di un uomo, anche quando si tratta dei classici sintomi di un infarto e anche se le malattie cardiache sono una delle cause principali di morte per le donne: inoltre, come abbiamo visto in precedenza, è molto più probabile che i disturbi fisici delle donne siano considerati di natura psichiatrica, spesso ricondotti alla depressione. Uno dei motivi è che, quando le donne parlano della loro vita e delle loro esperienze, non sono ascoltate con attenzione. Anzi, sono spesso vittime di quello che la filosofa Miranda Fricker della City University di NY ha definito “deficit di credibilità”. Le donne, in generale, sono considerate fonti d’informazione meno affidabili perché certi stereotipi le dipingono come irrazionali e di conseguenza, il modo in cui la società considera fenomeni come le molestie sul lavoro, la violenza sessuale e quella di un partner è profondamente distorto, perché è meno probabile che si creda ai racconti delle persone che ne sono più spesso vittime. A causa di questo deficit di credibilità, il racconto della propria vita fatto dalle donne è una questione femminista, che invita a credere alle donne, ma il caso del dolore rivela i limiti di questo invito. È giusto e necessario chiedere che il dolore delle donne sia riconosciuto, ma questa richiesta rischia di rafforzare involontariamente il pregiudizio sociale sul rapporto gerarchico tra dolore fisico e psicologico, e lo fa in un modo che, ancora una volta, danneggia la donna.
L’invito a credere alle donne, spesso diventa qualcosa di più: un appello a credere che il loro dolore è provocato da cause fisiche, almeno fino a quando non si riesce a dimostrare il contrario. Spesso minimizziamo quello che le donne dicono sulla loro vita perché sono considerate inaffidabili, capricciose e esagerate e si finisce per credere che il dolore sia “nella loro testa”. Ma questo non è l’unico pregiudizio. Tutto quello che è di natura psicologica viene considerato meno grave, soprattutto nel caso delle donne, dando origine ad un doppio vincolo, prodotto da due pregiudizi diversi: la donna isterica e le malattie psichiche non sono reali. Diventa impossibile combattere uno dei due pregiudizi senza rafforzare l’altro. Le donne che hanno sofferto inutilmente a causa di una diagnosi psichiatrica errata sono giustamente contrarie a un’eccessiva psicologizzazione del loro dolore, ma più concentriamo l’attenzione sul fattore fisico, meno teniamo in considerazione che traumi, depressione e stress possono provocare e influenzare il dolore: questa sofferenza è la risposta a una minaccia e il cervello usa quasi lo stesso meccanismo, sia che la persona sia ferita socialmente che fisicamente. A questo punto, il doppio vincolo diventa particolarmente insidioso: per riconoscere gli aspetti psicologici del dolore dobbiamo attribuire la giusta importanza a stress e emozioni, ma appena si parla di questi la percezione del dolore della donna cambia completamente e diventa difficile non evocare lo spettro dell’isteria.
Il fatto che molto spesso quando si parla di dolore femminile si finisca per dare la colpa a fattori psicologici è sminuente e può portare le pazienti a sperimentare sentimenti di solitudine, di vergogna, di colpa e un abbassamento dell’autostima. In qualche modo tali pensieri svalutanti, accanto al dolore fisiologico sperimentato dalle pazienti, contribuiscono a rendere la sofferenza della donna ancora più forte. Inoltre, successivamente alla diagnosi si instaurano una serie di cambiamenti nello stile di vita delle pazienti, che rendono se possibile ancora più difficile convivere con patologie croniche di questo tipo. Chi ne soffre si trova spesso a dover cambiare il modo di vestire e le abitudini quotidiane; le terapie a base di psicofarmaci possono risultare pesanti e spesso invalidanti, senza dimenticare la paura dei rapporti sessuali o di fare figli, che comportano ulteriori difficoltà a livello di coppia e di rapporti interpersonali, dovuti da sentimenti di inadeguatezza e senso di colpa che la donna sperimenta, insieme alla sofferenza fisica della malattia, che di conseguenza viene vissuta come qualcosa da nascondere, di cui è meglio non parlare apertamente. Al contrario, servirebbero campagne di divulgazione e sensibilizzazione su temi di questo tipo, come ci dimostra l’esperienza della modella e influencer Giorgia Soleri che si batte attivamente sui social per rompere i tabù legati alla malattia della quale soffre, la vulvodinia. La sua battaglia, in parte anche politica, che vede come obiettivo il riconoscimento di vulvodinia e neuropatia del pudendo come malattie croniche e invalidanti, con ciò che ne consegue a livello di tutele e diritti, ha permesso a molte donne di riconoscersi nella sofferenza descritta da Giorgia, e di uscire allo scoperto nel tentativo di rendere tali patologie meno invisibili e di venire ascoltate. Ascolto, presenza e comprensione: tutti aspetti che dovrebbero essere integrati nei processi di cura, ma ancora oggi questo avviene troppo raramente, con il rischio che si finisca per aderire ad una visione prestabilita del dolore femminile di cui non si riesce purtroppo ancora a dubitare.
I pregiudizi a doppio vincolo sono difficili da arginare. È fondamentale ricordare che lo stress, la depressione e i traumi possono influenzare il dolore delle donne, ma è ancora più importante non rafforzare il pregiudizio che i problemi delle donne dipendono dalle loro emozioni. Trattare le malattie fisiche delle donne come disturbi di natura psicologica potrebbe mettere in pericolo la loro salute e la loro vita, così come non tener conto della loro salute mentale nella convivenza con patologie che provocano dolore cronico potrebbe provocare ulteriori problemi.
Ovviamente non esiste un modo unico di reagire alla sofferenza, e spesso le donne si trovano a dover gestire emozioni forti e assolutamente soggettive, che dipendono dalla capacità di adattamento alla patologia, dalle possibili modificazioni allo stile di vita e relazioni con gli altri, dalla propria storia personale e dalla capacità di comprensione da parte dei parenti. In questo senso, conoscere e distinguere le proprie emozioni, normalizzarle, può aiutare a gestirle in maniera funzionale e non riversarle su sé stessi o su chi ci è accanto. Per questo è fondamentale condividere con partner, familiari e caregiver informazioni corrette e complete sugli aspetti più salienti legati alla malattia, rafforzando e interpretando la propria situazione, attivando risorse personali e sociali, ed eventualmente ricorrere all’aiuto di professionisti. In ogni caso, ciò che è fondamentale, è non reprimere le proprie emozioni, anche se sono negative, comprendere quali sono i propri bisogni, ed attivarsi nella ricerca di un sostegno ed un supporto, anche immaginando un percorso di psicoterapia che aiuti ad affrontare la situazione in senso globale.